GERUSALEMME CAPITALE D’ISRAELE: UN FALSO STORICO

Una nuova intifada è alle porte. Israele rivendica Gerusalemme come capitale affermando che questa richiesta ha una giustificazione storica ma a guardare la storia Gerusalemme è stata capitale d’Israele per soli 50 anni, e questo come conseguenza delle particolari vicende che caratterizzarono anche nell’antichità il regno di Israele. Questo per dire che siamo di fronte a una rivendicazione politica che magari rappresenta l’aspirazione della maggioranza degli attuali residenti in quel territorio, ma altrettanto possono dire gli arabi che vi abitano, i quali vorrebbero che Gerusalemme fosse la capitale di un proprio Stato indipendente. Da qui la domanda: perché Trump ha preso la nota decisione se non per destabilizzare l’intero Medio Oriente?

Dopo la vittoria russo-iraniana nella guerra di Siria gli Stati Uniti devono a tutti i costi impedire la stabilizzazione dello statu quo in modo che Putin non consolidi le proprie posizioni e Israele deve impedire all’Iran di proiettare la sua influenza nella regione. La dichiarazione statunitense scompiglia le carte e cerca di guadagnare tempo per chiarirsi le idee sull’utilizzazione dei curdi, per costruire un’alternativa militare in Siria contro il Governo Assad, creando un esercito fantoccio di sostegno alle proprie posizioni,per il quale il reclutamento è in corso a opera di consiglieri militari statunitensi presenti sul territorio nel sud della Siria. Nelle intenzioni di Trump la ferita siriana non deve assolutamente chiudersi perché il flusso dell’esodo dalla Siria va mantenuto per destabilizzare la situazione sociale ed economica del Medio Oriente e in prospettiva dell’Europa. Ad approfittare della situazione è stato Erdogan che ha convocato una conferenza internazionale dei paesi arabi con l’intento di assumerne la leadership, ponendosi come alternativa all’Iran e all’Arabia Saudita, quasi ad ergersi su una posizione super partes nel conflitto che oppone sciiti e sunniti in tutto lo scacchiere medio orientale.
La posizione assunta da Trump ha suscitato anche l’intervento della diplomazia francese – tradizionalmente interessata alle vicende siriane per essere stato il paese mandatario che ha amministrato la regione – la quale è interessata a promuovere la pace attraverso l’apertura di un tavolo di trattative che coinvolga tutte le parti in conflitto. L’iniziativa francese è la sola concreta e possibile in ambito europeo considerando che la Germania è immobilizzata perché priva di governo e l’Italia si limita a fare da scèrpa in Libano con il suo corpo di spedizione sotto l’egida dell’ONU per mantenere la non belligeranza con Israele e che, proprio in ragione di ciò, avrebbe qualcosa da dire a sostegno della pace.
L’ONU, con una risoluzione priva di efficacia a causa del veto americano, lascia isolati gli Stati Uniti e Israele che hanno il consenso di appena 7 paesi di scarsissima rilevanza. Spaccata invece l’Unione Europea tra alcuni paesi dell’Est che si astengono e paesi occidentali che votano contro gli USA in 128 contro 9.

Il rebus curdo

Bisogna prendere atto che la guerra contro Daesh e ancora prima l’intervento americano in Iraq hanno irreversibilmente mutato la situazione geopolitica della regione, facendo emergere un problema sommerso: quello curdo. La dissoluzione dell’impero ottomano aveva lasciato aperti due problemi: quello armeno e quello curdo. Ambedue questi popoli sono stati vittime di un genocidio messo in atto dai Giovani Turchi che volevano eliminare queste due entità etniche che minavano l’omogeneità della popolazione della Turchia e interrompevano la continuità territoriale nell’area nord orientale del Paese, necessaria a fare delle popolazioni ottomane un’unica entità nazionale. Gli armeni la minavano in tutto il paese, in quanto costituivano una comunità molto attiva soprattutto tra gli intellettuali e nel commercio e perciò vennero sterminati.[1] I curdi la interrompevano sulla direttrice asiatica e perciò sono stati deportati e chiusi in campi di concentramento. La sopravvenienza della presenza curda, concentrata nel territorio dell’altipiano del Kurdistan, crea però ancora oggi problemi in quanto questa componente della popolazione si dimostra refrattaria all’assimilazione non solo sotto il profilo etnico, ma per lingua tradizioni, costumi e un vissuto dell’islam più aperto delle contigue popolazioni anatoliche legate ad un islam tradizionalista.
L’impegno della popolazione curda – anche è soprattutto di quella che vive in Siria Iran e Iraq nella guerra anti Daesh, che si proponeva a sua volta di sterminarla e annientarla come entità etnica, linguistica e religiosa – pone un problema politico sia agli americani che dei curdi si sono serviti, sia ai diversi Stati nei quali questa popolazione è distribuita.
I territori che essa occupa nella parte irachena del Kurdistan sono ricchi di petrolio, ma soprattutto questa popolazione è stata l’unica ad impegnarsi in modo massiccio, insieme alle altre minoranze etniche e religiose dell’area, nella guerra contro Daesh. Non si tratta di riconoscenza ma per gli Stati Uniti è difficile fare a meno degli unici alleati affidabili che “hanno lo scarpone sul terreno”. Tuttavia allearsi con i curdi significa inimicarsi la Turchia e tutti gli altri Stati che dovrebbero cedere parte del loro territorio qualora si creasse un’entità statale curda. E tuttavia l’alleanza statunitense con i curdi è un percorso obbligato se essi vogliono contrastare la presenza russa sul terreno. La Russia da parte sua non ha difficoltà a schierarsi contro i curdi in quanto riceve così i ringraziamenti di Siria e Iran, ma quel che più importa della Turchia.

La carta israeliana

In questa situazione diventa comprensibile la convergenza sul campo degli USA con Israele con il quale essi condividono l’avversione all’Iran e nel quale intravedono una minaccia sul piano nucleare, ma ancor di più dal punto di vista economico, in quanto questo paese, una volta liberato dalle catene degli embarghi decretati e voluti dagli USA, potrebbe aprirsi notevoli spazi nei mercati dei paesi del golfo e con i tanti Stati arabi della regione. L’accresciuta potenza economica e militare si rifletterebbe inevitabilmente sulla capacità dell’Iran di catalizzare intorno a se gli sciiti del medio oriente (in percentuale tre su cinque) e la simpatia di non pochi Stati islamici. Inoltre gli Stati Uniti devono fare di tutto per contenere l’espansionismo russo e il tentativo di Putin di imporsi come elemento di stabilità nel mondo arabo e come strumento di contenimento dell’egemonia dell’Arabia Saudita nello stesso mondo sunnita. Per farlo hanno bisogno di alleati nel settore e come sempre gli Israeliani costituiscono la carta migliore, a patto che riescano a convivere con gli alleati arabi degli Stati Uniti, primo tra tutti l’Arabia Saudita. Ebbene i rapporti con quest’ultima non sono poi così disastrosi. Non è un caso che Trump si sia recato come suo primo viaggio all’estero in questo paese concludendo un accordo per 110 miliardi di dollari (più altri nei prossimi anni) per la vendita di armi e la promessa da parte dei sauditi di investimenti in USA pe 20 milioni di dollari. Da li la tappa successiva del Presidente è stata direttamente Israele senza passare per scali intermedi come si fa di solito. Lo stesso paese che – dicono i ben informati – Mohammed bin Salman Principe saudita attuale detentore del potere avrebbe visitato in incognito tempo fa per una visita non a scopi turistici.
Da tempo gli israeliani si sono specializzati in progettazione di sistemi di coltivazione innovativi nel deserto, produzioni di energia alternativi al petroli, progettazioni di infrastrutture ma soprattutto realizzazione di sistemi di security per gli apparati governativi che vendono in tutti i paesi africani. E bin Salman aha proprio bisogno di questo mentre sta scalando il potere e vorrebbe realizzare progetti innovativi in campo economico e strutturale.
Così alle contrapposizioni di facciata, all’apparente sdegno per le posizioni americane, si sovrappongono gli interessi. Per ora l’opposizione più ferma alla dichiarazione di Trump è venuta unanimemente dall’Europa che non ha nessun interesse a veder crescere i venti di guerra, a una nuova intifada e tanto meno a lasciare spazio alle manovre americane di ulteriore destabilizzazione del Medio Oriente e perciò realizza una inedita convergenza con Putin e benché le Nazioni Unite siano state bloccate dal veto americano di fronte alla proposta di votare una risoluzione di condanna della decisione americana sostiene una mozione di condanna dell’Assemblea delle Nazioni Unite dell’operato statunitense.
Non sarà l’attivismo di Macron a fermare gli Stati Uniti e Trump. Il vero ostacolo alla politica di “realismo” che l’amministrazione americana sostiene è Israele che vorrà portare in porto l’operazione “capitale” alle sue condizioni e quindi non accetterà mai di riconoscere Gerusalemme Est come capitale dello Stato palestinese né di dar vita a uno Stato palestinese sul modello “bandustan” sudafricano, ben sapendo che non può funzionare. Pensare al necessario ritiro dai territori occupati e da almeno la maggior parte degli insediamenti in territorio palestinese è impensabile. Solo il tempo e la crescita demografica costante della popolazione palestinese potranno un giorno indurre forse finalmente Israele a trattare la fine del conflitto.

Gianni Cimbalo

[1] Tra il 1915 e il 1916 il Governo turco sterminò circa 1,5 milioni di Armeni, costringendoli al marce forzate verso l’Anatolia verso campi di concentramento nei quali solo pochi arrivarono. Si trattò di una operazione di pulizia etnica all’interno dell’intero Paese. Nella notte tra il 23 e il 24 aprile 1915 cominciano gli armeni catturati vennero condotti ai luoghi di prigionia. Il loro trasferimento è passato alla storia come “marce della morte” che anticiparono quelle poi adottate dai nazisti per i prigionieri dei campi di sterminio; così un intero popolo venne massacrato. La Repubblica indipendente dell’Armenia era tale dal 1918 e nel 1920 venne occupata dall’Armata Rossa. Entrata sotto l’orbita russa la Repubblica d’Armenia fini per accogliere i pochi superstiti. L’Armenia, dal canto suo, entra nell’URSS come Repubblica Federativa Sovietica Transcaucasica (insieme all’Azerbaigian e alla Georgia) nel 1922. finché nel 1936 nasce la Repubblica Socialista Sovietica dell’Armenia. A causa di spinte nazionalistiche presenti nel Paese nel 1988 si sviluppano forti tensioni con Arzebaigian per il controllo del Nagorno Karabakh. Vengono costituite milizie. Nel 1991 l’Armenia proclama unilateralmente indipendenza dall’Unione Sovietica.